su moussa traorre, non-artista plastico

Posted in recensioni mostre arte contemporanea on marzo 24, 2010 by vince1971

Con Moussa a Ryciclare.

Lui che offrì la faccia al vento

la gola al vino

e nemmeno un pensiero

No al denaro, no all’amore, né al cielo.

All’officina giovani c’è chi la testa ci cammina assai, qualcuno che riesce a fare cose buone e giuste: caso anomalo per un’istituzione, solo che a prato

(per fortuna?) tutti lavorano – chi fa i soldi e chi fa i turni per farglieli guadagnare- e i politici hanno altro a cui pensare ( per fortuna!).

Sciolti così da eccessivi lacci burocratici i Nostri si son detti «perché non invitare Moussa Traore a tenere un laboratorio qui da noi?»

Ed eccolo qui da noi sul finire di Gennaio, appena sbarcato da un link della Grande Ragnatela Fosforescente in carne ed ossa avvolte nella sua pelle nera di quarantaduenne: Moussa de la Medina, la faccia stanca per il lungo viaggio dal lontano Senegàl e la naturale presenza sua di Uomo.

Vale tanto essere uomini per essere artisti, possedere Umanità e Presenza, che tanto la vita e l’arte sono la stessa cosa se la vita è vissuta davvero.

Lontano da qui c’è un luogo in cui gli stipendi e i beni di consumo si dividono coi vicini di casa,  fanno quasi tutto così i  tanti i senegalesi  immigrati sparsi in tutto il mondo, mi ha detto Moussa, e mi ha detto anche che lui lavora per la Sua gente e la Sua gente è chiunque usa il cuore e sa’ parlare con verità.

Avevamo raccolto molto materiale, soprattutto metallico, lo abbiamo accatastato fuori dall’atelier: lui parlava solo francese io solo italiano, lui brandiva la canna adunca della sua fiamma ossidrica, la fiamma assoluta che ogni cosa trancia, fora, fonde (no, l’alluminio no, quello fonde ma non lega);  io mi guardavo intorno poi sceglievo i miei materiali e li assemblavo poi gli indicavo dove poggiare la canna: non era necessario parlare, per un mese si è lavorato quasi sempre in silenzio ciascuno col proprio materiale. Tutto è stato divertente, tutto è stato facile e le opere sono venute bene. Il segreto sta tutto nello scegliere “les materiaux pour travallier” (…) Lavorare: ha molto fascino la roba gettata via, la roba di nessuno, affrancata dalla proprietà privata ritorna ad essere natura. Natura naturata!

Occorre essere attenti ed essere padroni di se stessi ed avere coraggio. Il tutto sei tu.

Un consiglio a voi che entrate in questa sala. Siate gentili,  gettate via le vostre categorie, bruciate gli schedari intellettuali inoculati nelle vostre menti civilizzate. Per leggere queste opere basta che usate i  vostri occhi.  Oppure, se credete, non leggetele affatto, guardate, toccate, passateci immezzo; non consideratele “opere d’arte”, oggetti sacri degni di ammirazione, prendeteli per “pezzi” ed usate l’empatia, usate anche il rispetto per l’opera altrui ma non siate deferenti, non distanziatevi: toccate, prendete, toccate! Riappropriatevi dei mezzi, riprendetevi la vita, fate come fanno i ricchi che si credono i soli possidenti delle natura e prendono e toccano (…). Riprendiamoci la dignità che ci hanno tolto col danaro e coll’inganno del diritto tracciato a garanzia di loro.

Un altro consiglio.  Per favore, non prendete questo grande artista per il solito cristo africano che viene a spalare la  nostra (?) merda mercantile e a trasformala in arte, e nemmeno – peggio ancora – per  un “civile” ecologista.

Moussa è un uomo come noi. Certo, egli viene dall’Africa, il cuore pulsante del Pianeta e questa è una metafora suggestiva che si presta a facili mistificazioni molto in auge di questi tempi e da queste parti; però, a me che scrivo ed ho lavorato insieme a lui, viene da credere che l’Africa sia il cuore e l’Occidente il cervello malato del mondo. La produzione è un’aberazione del fare umano;  la produzione finalizzata all’accumulo del Capitale serve solo a quei pochi che ne dispongono e che per conservare i loro privilegi basati sulla ricchezza, non sulla dignità, asservono, sfruttano, corrompono ed  infine uccidono. L’Africa conosce soprattutto questo aspetto della nostra cara civiltà, a noi più fortunati, essa riserva posti di lavoro, carceri, manicomi, centri commerciali.

Il  cervello del mondo è ammalato, e l’umore rabbioso di queste mie righe non serve forse a molto (…) Meglio, molto meglio, la cordialità di un artista africano e la semplice bellezza degli oggetti da lui creati, pezzi, “pezzi” composti da una mano che conosce la  pietà, il rispetto, l’eleganza – in una parola – la mano di uno che sa cos’è l’amore.

Moussa ha un amico a Genova, questo amico è napoletano e fa il carabiniere. I carabinieri, si sa, sono gente simpatica (…), e così quando Moussa passa da quella città,  il suo amico carramba và a trovarlo e loporta a spasso con  la gazzella, lui al volante, in divisa, e Moussa dietro che tutti pensano ad uno spaccia o ad un magnaccia appena arrestato; nessuno immagina come stanno davvero le cose, e i due amici se la ridono spassandosela insieme.

Anche io con Moussa me la sono spassata alla grande e con noi c’erano Cristiano, Simona, Ilaria, Lucia, Claudio, Vince(s).

Introduzione al catalogo “PubliCITTA’” , pubblicazione di fine corso di 600 ore “Proporsi” svolto a Prato a cura della Provincia di Prato e di Euridea Firenze coi fondi del POR 2000-2006

Posted in introduzioni cataloghi with tags on febbraio 7, 2010 by vince1971

0.0 Premessa

Il contenuto del catalogo che qui si introduce rappresenta un assoluto inedito nella storia pur breve della provincia di Prato; censire le agenzie pubblicitarie presenti nel suo territorio è impresa fin qui non tentata dalla pubblicistica locale per tutta una serie di fattori ambientali e produttivi tra i  quali spicca la vocazione manifatturiera del distretto pratese teso da sempre ad una produzione massima che ha trovato in altri luoghi d’Italia e del Mondo i propri marchi.

Eppure, come possiamo notare dalla parte centrale del catalogo contenente l’elenco delle agenzie e delle tipografie censite, anche Prato è in grado di produrre ed esportare pubblicità, quella che un tempo si diceva «l’anima del commercio».

Ora che le rotte del mercato mondiale sono radicalmente mutate così come sono mutati anche i canali e le modalità della comunicazione, anche il settore tessile si è rinnovato ritrovando, in in un certo senso,  la propria tradizionale vocazione individualista e frammentata in migliaia di piccole aziende che scoprono in questi anni l’importanza del valorizzare alla fonte la propria merce pubblicizzandola.

Comunicare è conferire valore, a qualsiasi latitudine e ancor di più in un settore di mercato come quello tessile che ormai da più di un decennio punta sulla qualità rispetto a nuove entità produttive straniere che puntano piuttosto sulla quantità e sulla legge del ribasso.

Di seguito un elenco non completo dei pubblicitari pratesi, alcuni di questi hanno diffidato – a torto o a ragione – del lavoro dei giovani copy-writers, grafici e accounter che hanno dato vita a Proporsi, un progetto ideato dall’agenzia formativa Ipotesi e sostenuto dalla Regione Toscana nel quadro della formazione alle  nuove professionalità connesse al settore delle comunicazione.

0.1 articolo; L’eterna storia della pubblicità.

La pubblicità è la letteratura assunta dall’industria del mercato per gestirne le strategie di investimento. Tra letteratura  e mercato esiste una simbiosi vecchia quanto l’invenzione della stampa calcografica seguendo gli sviluppi di questa relazione organica compileremmo un interessante catalogo di forme scritte o rappresentate per mezzo di immagini. Ma quel che ci piace mettere qui in evidenza è il parallelo, consequenziale progressivo tramonto della cultura orale.  In occidente e nel mondo da esso dominato, giunto ai nostri giorni alla sua piena notte.

In questa notte silenziosa brillano le luci di segnale intermittente: una scritta sopra un neon genera un messaggio ininterrotto che scorre nelle menti congestionate come uno schermo al plasma, questo messaggio potrebbe essere: «non c’è niente da sapere, credete e comprate». All’apogeo della società mercantile comprare equivale ad essere ed è un essere che si acquista, basta il denaro necessario, stabilito: quanto costa? Poco, molto? L’importante che sia li, a portata di mano; ci si può ingegnare in mille modi per conseguire la libertà di acquistare, la libertà di essere.

E’ un modello di civiltà e a questa civiltà la pubblicità è legata in modo indissolubile. Essa governa il flusso dei desideri: sono quello che desideri essere, lei dice, in me troverai la beatitudine, la pienezza e la soddisfazione, ma ho un difetto sono deperibile come la felicità e tu, tu sarai felice per tutto il tempo che ascolterai i miei consigli dopo, se spegni la TV o la radio e fodererai le tue orecchie e tapperai i tuoi occhi resterai solo con te, col tuo non essere, col tuo nulla.

La persuasione è la strada tra essere e non essere, ai nostri giorni ci sono strade e ponti di cui non si conta il numero a perdita d’occhio, miliardi di strade portano alla felicità, persuasione è il giusto pedaggio da pagare nella notte del senso e del valore.

Tramontato il senso delle cose inciso nella mentalità collettiva, tramontata l’oralità trionfa la scrittura, la codificazione mentre arrivano sul mercato le patate, i pomodori, il tabacco e con essi la sifilide che rende ciechi……

Non è ilo caso di stare troppo a scandalizzarsi, niente di nuovo sotto il sole: dobbiamo persuaderci ad andare avanti e se non siamo troppo persuasi noi ci sarà sempre qualcuno a farlo in noi: alcuno soccombono, sono le anime belle, i più sensibili che non trovano pace come bambini alle giostre cadono subito preda della cupidigia che mai sazia e sempre aizza nuovi desideri, sempre più imprecisi; altri, gli appagati, ci stanno tanto bene perché sanno che quella strada non finirà anzi è benedetta dal sistema: casa, famiglia, lavoro e soprattutto…..voto, dare il voto a questo o quello che si fa garante di questo o i quel benessere, certo garantito, eterno.

Vincenzo Ferrara

Marzo 2007

kinkaleri – i cenci

Posted in recensioni teatro with tags , , , on febbraio 7, 2010 by vince1971

A noi due, dopo lo spettacolo e’ venuta in mente la fine.

Chi siamo lo saprete solo ascoltandoci redatti dentro ai nostri pensieri ibernati la sera del tredici colpiti da isterismo connesso alla visione del terzo Studio dei Cenci col concorso della posizione delle pleiadi nello schermo piatto del firmamento neo medievale tecnologico. Oggi come allora un pullulare di icone ed eretici, praticanti strenui della cospirazione psichica globale. Cominciò che era già finita. Fu così che sul finire dell’anno 2003 Vu ed Emme vanno a teatro – finalmente il teatro – a vedere una comune rappresentazione teatrale condotta in un modo tutto sommato comune per una banda di teatro sperimentale  e subito dopo sfociano in considerazioni abissali e oggetti e benefiche svolte ossessive ispirate all’idea di fallimento come fine di un tempo, chiusura di un ciclo, sigillo ed anche icona del teatro di  Antonin Artaud, una catena montuosa ricca di picchi visibili solo volandoci a 600 piedi d’altezza oppure con un pallone aerostatico oppure coi potenti mezzi della mente.

Ne deriva la presente deriva sintomatica tra i Cenci di Artaud degnamente ri-visitati dai kinkaleri in una trilogia che li ha occupati per tutto il 2003 da Prato a Sant’Arcangelo e otto-nove giorni fa a Scandicci: tre studi ad alta intensità neurotica immersi, i primi due nei rispettivi festivals e l‘ultimo al Teatro Studio,  edificio dotato di poltrone, biglietto unico d‘ingresso riscaldamenti ed un solo spettacolo di 40 minuti, uno solo.

SOFAR AMI, che significa: hai capito?

Le cose stanno messe in questa maniera: sembra che il defunto sia uso presentarsi in sogno a certo mio amico sardo di Bologna vaticinando allusivo ma chiaro a fatti che concernono la sua sfera privata come mi racconto A. tempo fa di quell’unico sogno rivelatore mentre senza troppi disturbi del transfert ci dicevamo dei nostri sogni migliori ad una festa. Il suo pezzo migliore fu quello di Artaud che gli parla in sogno uno quelli che rimangono come piramidi tra le tempeste di sabbia del suo e nostro illimitato procedere:  torce cunicoli e un vaticinio in francese.

A questo punto credo che Artaud si farà vedere magari solo in sogno da quelli del  raggruppamento di mezzi e formati in bilico nel tentativo, magari solo a qualcuno di loro.  Kinkaleri è una parola sola, singolare nel linguaggio da cui proviene, l’albanese dove si pronuncia accentata: si sono dotati da qualche tempo della specifica arte di coniugare la  realtà e il sogno (anche quelli descritti dalla psicologia come «sogni occhi aperti») se vogliamo ossequiare vecchi dualismi largamente opinabili fosse solo per i risvolti politici o sociologici della faccenda del muoversi sempre dentro a dicotomie illusorie che rendono arduo il compito della fantasia e dell’immaginario più arduo ma, diciamocelo pure, forse anche più interessante il progresso umano.

Leggo in questa versione dei Cenci considerevoli anticipazioni del tomorrow’s world,  magari di un certo antagonismo sempre più consapevole di sé, di un’utopia matura per la ricerca nell’ambito delle rappresentazioni di natura dichiaratamente estetica e per una definizione impermanente dell’ immaginario contemporaneo nel suo progressivo svanire o espandersi incalzato dalle Ere.  Questa ultima «produzione» dei kinkaleri, a scaturiscono dall’incrocio di idee e macchine e corpi e mezzi, questo come-sempre-non-sai-bene-cosa è il prodotto di una macchine teatrale attiva dentro e fuori il teatro, soprattutto fuori consapevoli e per nulla turbati del fatto che la televisione e le aule dei parlamenti o gli stadi sportivi sono spettacoli che concorrono in una misura molto maggiore al quel montaggio di visioni definite come la realtà .

A questo punto, stabilita la connessione, da Bologna a Prato si fa in un baleno nel senso che ci si mette poco e Artaud il morto a spostarsi e  oltrepassa il traforo altavelocità alla velocità del pensiero al cuore della Montagna Sacra,  L’Appennino Tosco-Cinese o Cino-Emiliano,   guerra a bassa intensità cia(o), poi Il distretto tessile pratese a pochi minuti dalla Città Fossile, medaglia arrugginita nel cuore stanco della civilta’, come in quello di Karòl il Grande[1]: voila’ Artaud alla corte di Pinocchio!

ERA ORA, Giubili dalle cave, ERA ORA, Nei cortili sigarettati di Gesu’[2]. In pochi lo sanno. 

Kinkaleri fa di tutto, nel senso che produce molte cose che sfidano i limiti dell’arte,  Artaud è il mistico delle espansioni della coscienza che si sbarazza del teatro, gli stava stretto necessitava di un network. Kinkaleri e Artaud producono lo spettacolo definitivo il fallimento definitivo dello spettacolo, un NO alto dieci metri come un  muro invisibile tra il prima e il dopo del teatro di chi lo fa e di chi ci va o non ci va col dopo che non si vede ancora bene potrebbe essere sconfinato oppure niente, nada. Le Americhe sono Finite. Temo per la sorte dei cinque o sei componenti, uno di loro però mi ha garantito di essere giunto alla perdita della memoria o come si dice oggi l’anima intesa come l’io sconfinato a tre dimensioni: ciò a mio avviso rende il suo sguardo «crudele» da fissare gli eventi come una scaglia silicizzata di meteora mezza emergente dalla superficie della luna.

Kinkaleri Crudeli mettono in scena eventi puri tanto quanto basta per innescare contatti  puri e connessioni che pure lo sono solo per definizione non per la realtà dei fatti e dei mezzi esposti di seguito in forma sinottica.

# Pannello1. video 1.

24 ore di TV in 24 minuti.

L’impresa digitale a portata di ciascuno di noi (dicono a  gasparri gli alti membri della psicopolizia) nella microera telematica, quella della democratica virtuale, la tv da musa ausiliaria di Schifano si fa occhio del grande fratello, guardarla in 24 minuti e come guardare lo schermo di un computer al suo interno, la pupilla di silicio dentro al suo occhio di vetro: frigge come si dice noi dello «spettacolo globale». Una duplice interna veggenza dal di dentro sopra ad una scena, come saprete dopo, «vuota» di senso.

# Pannello2. video 2 in posizione centrale e descrizione della scena.

Video-Riprese in uguale durata

Finalmente gli attori qualcuno di loro è vivo sulla scena, hanno molto da agire: le macchine tanto da sembrare addetti alla scena. Ecce l’attore totale in piena simbiosi con tecnologia nostra signora che ama e da cui e’ riamato, un tableau vivant dove lei si leva come leggiadro papavero ma poi si mette il tacco alto ed esegue delle spaccate di routine da perfetto circo tecnologico. La scena è negata dal buio allo spettatore ed è la scena che si autonega: la ballerina sparisce con le sue meravigliose gambe, gli attori in panni quotidiani diventano post DJ a commento-azione del montaggio riprodotto nel video digitale producente immagini di attori introdotti nel video e da questo iconizzati tali da parere al nostro sguardo «di mezzo», indossano divise varie. Dal punto focale fuggenti secondo la  progressione fermo-camminando-correndo si muovono lungo i quattro angoli del piano unico, lo schermo, ingoiando i nostri sguardi come video cyber game.  Dalla scena introiettata si levano surrogati di simboli, stemmi, icone dell’oggi-sempre: prototipi di vita umana, televisivi ma non troppo: il teatro e il suo doppio. C’è Carlo Giuliani col passamontagna che come Lazzaro si solleva dalla posa televisiva che lo ha immortalato nell’immaginario umano come un fatto di cronaca nera relegandolo nella sua portata politica, e forse è la parte che gli spetta al povero Carlo. Segue logicamente il  Carabiniere che tradisce sorrisi ammiccanti in momenti a bassa intensita’ del Trattamento Nova. Crocerossina che fuma sopra un cavalletto (arrapantissima) il Calciatore in divisa che palleggia (che palle). Lo Steward e L’ Hostess in ripresa statica a tre quarti come coi  monumenti o ritratti. Poi la fuga di tutti i personaggi ai quattro angoli dell’immagine, il movimento filmato e un trance ipnotico in sala con lo scretch neuronale del dee-jay bis.

Una doppia razione di scorie visivo-sonore per la nuova era mistico atea per la quale è forse chiaro che parteggio.

#Pannello 3. Video 3.

Solo Testo.

Su sfondo nero, scrittura, lingua: italiano standard. Alcune trance di testo: REALTA’-RAPPRESENTAZIONE-DEFECAZIONE. Alcune tracce di studio sul testo con tentativi di definizione e ripetizione estenuata di significati forti come DITTATURA e FALLIMENTO che applicati a varie parole genitive – i campi extratestuali (le praterie elettroniche)-  nel tentativo vincente di  “realizzare” quei significati .

Scarnificato come un coniglio sordo e magro il dialogo e la parola il tutto si  riduce ad una serie di asserzioni casuali che poi inducono domande del tipo Dove sei stato? Al cinema o al teatro? Cosa hai guardato? Il teatro o il cinema? Era reale o irreale?

Risposta 9 giorni dopo posteriore: Sono tutte domande retoriche, l’unica domanda sensata prima della demenza totale o anche solo latente e’ Cosa hai visto? Ed io rispondo cosi’: Segni scarnificati per ossessioni salvifiche e nervi forti. SPAM!

TANTAR UPTI che significa «hai capito?»

Fine comunicato. Segue VU-EMME 2,  battute per dialogo radiofonico.

Vu. Così tesoro presto anche noi avremo il nostro canale digitale, e inviteremo i  kinkaleri  a passare lavori come questo, ne ho in mente tanta altra di gente, ho molti contatti io.

Emme. E noi? Andremo in scena?

Vu. Certo che sì. Noi vedrai che ce la facciamo

EMME. E come la metti con la fine?

Vu. La fine di che?

Emme. La fine del mondo, immagino.

Vu. Metteremo in scena anche quella:  orde di non nati smettono l’ignobile costume di risparmiare, scricchiolano le mura del castello di kafka, rovinano i torrioni costruiti in anni di sacrifici e cadono le menzogne inalberate come vessillo. Massimo tra queste l’arte colpita al cuore come un vampiro nella bara ma è anche una vergine che muore dalla voglia di scopare. Sangue puro alle radici della vita. L’anarchico si toglie la corona uccide la famiglia e va al cinema, arriva il pifferaio che guida masse di topi verso il mare in tempesta sul quale egli e’ solito camminare. Scendono le astronavi sopra un cielo di carta pesta. Ti piace?

Emme. ( trasognata e prudente ) Si

Vu( come verdone). OK allora stanotte ‘o famo strano?

Emme. Si’, ma come la metti con la psicopolizia di gasparri?

Vu. Vu ( ci pensa un po’) poi dice: noi siamo già psicolabili e pure psiconauti.

Emme: si, ma alla larga dagli psicopatici.

Vu: ok, finché non sfonderemo anche noi, poi ti ci voglio vedere.

Emme:  No gli psicopatici sono sempre merde.

Vu: si, ma prendi Annibal, lui sa dove colpire come la morte, è cyber, è oltre, è un don. Hitler o King Kong a confronto è una parte che potrebbe  recitare chiunque di noi fottuti    nella stessa ragnatela:  dentro a un microfilm neuronale rumorosissimo

Emme: ora ti metti a fare pubblicità

Vu: perché? che c’è di male…. e poi vedi forse nemmeno lo pubblichiamo, ne faremo qualcos’altro.

Fine

Indicazioni di regia, parte lo speaker di turno: facciamo un sondaggio tra i presenti: che faranno doctor Vu e il suo amico con il microfilm? Di cosa sta parlando, un libro? un DVD un film porno? Doctor Vu ed Emme alla fine si sposano? Ci sarà una nuova serie?

Parte la discussione: interverrei sotto false spoglie per via telefonica ( cioè col mio nome anagrafico) ….  Da paura!  Wow diventeremo una trasmissione da/i paura…… come i film!

Sinceramente Fuso, vostro V.


[1] Cito il titolo di un recente libro gadget di “Famiglia Cristiana”

[2] Questa ed altre prese in corsivo sono figlie del mio socio il giovane poeta pop Renato Di Paola ed appartengono a tutti.

Su “Aspettando Marcello” di Ricci/ Forte.

Posted in recensioni teatro with tags , , , on febbraio 7, 2010 by vince1971

Una commedia che nella semplicità della sua forma restituisce in pieno la potenza del dia-logos in senso non soltanto “rappresentativo” ma anche, direi quasi “maieutico”. Le battute, il linguaggio, appaiono scarnificati sino all’essenza della funzione comunicativa, la quale è così libera da ogni caratteristica di genere, da ogni orpello da commedia “borghese”, così come svincolata appare dal ogni gravame intellettualistico che l’inevitabile confronto col celebre Godot potrebbe facilmente evocare,  condizionandone in tal modo la fruizione.

“Teatro nel teatro”? Mi viene da rispondere: “teatro del teatro”, teatro della vita, o meglio, nella vita. Opere come “Aspettando Marcello” fanno intravedere e credere nella possibilità, sempre ricorrente, mai del tutto estinta, di un teatro “biotico”, di una rappresentazione “a tinte forti” della vita, della società, senza che però si disperda lo specimen letterario, teatrale, poetico. Così in un giardino pubblico – la riserva degli indiani, il posto dei relitti, lo spazio dei diversi, il luogo dei poeti‑   si compie il “gioco” della vita: è un gioco talmente semplice che i due attempati amici lo hanno, con gli anni, trasformato in un “rito. Quale migliore occasione del passaggio della cometa Halley-Hope per riprendere il rito, in forma sempre cangiante, quello strano gioco della vita ammantata dei suoi abiti più sfolgoranti: la donna è una moglie favoleggiata,  madre e insieme concubina, santa e puttana;  lo scacco della perdita di lei; la morte, simulata come nelle grandi manovre  dell’anima  sfocia nell’eterno ritorno della simbolica cometa. Poi c’è l’eroe: quel Marcello-mito-redentore che, viaggiando con la cometa, propizia i riti strani di quella  sacra veglia: uno dei due attori si porta a spasso un guinzaglio vuoto, ‑ c’era forse Pozzo dentro quel laccio vuoto?  non so, però senz’altro c’era, e c’è, il phantasma della fantasia, perché i riti evocano gli spettri e la poesia parla attraverso di loro ‑; l’altro attore “fa l’uomo”, simula cioè la normalità dei normali, legge il giornale e sa comportarsi “a modo”.

I due “pervertiti” diventano così personaggi prima ancora che individui, attori prima ancora che uomini, e magari simboli, disincantati, corrosi, ironici, beffardi, corruttibili quanto si vuole – non siamo più ai tempi di Beckett ‑ ma pur sempre simboli del nostro nuovo, non ancora storicizzato, tempo.

La stanza di sopra di Ricci e Forte.

Posted in recensioni teatro with tags , , , , on febbraio 7, 2010 by vince1971

Ho sempre avuto un certo imbarazzo compiaciuto, dopo averli conosciuti anni fa, nel definire il genere dei lavori di Ricci e Forte: commedie o drammi? Non possiedo infatti una sicura cultura del teatro e fatico a distinguerne i generi: adotto dunque tutte le riverenze del caso. Sarà forse che, con quella vena di poesia che li abita, hanno trovato la formula segreta per distillare la quintessenza della verità proprio là dove più’ s’annidano l’errore e la menzogna? Medito già di attirarli quaggiù’, in quella Sicilia che tanto li affascina e li ispira, per estorcere loro il segreto! Sul come si vedrà: chiederò consiglio a qualche “famiglia” locale, tanto si sa: sti’ poeti sono sempre un poco masochisti e finiscono per affezionarsi a qualche occasionale loro aguzzino, capace di dar corpo al demone della verità che li pervade: fantasmi scaturiti come starnuti dalla loro mente ammalata di creazione.

Nella stanza di sopra abita un demone, si chiama Umberto ed è un demone coi fiocchi: è in agonia, quasi morto, colpito da un arciromanzesco colpo apoplettico. Il vecchio libertino da giovane fumava e, nel Novecento, le scatole di sigarette non riportavano i “salutari” moniti odierni. Però Umberto è anche vivo e vegeto: uno «speciale» amore per la propria genìa, lo ridesta ogni notte dal letto d’infermità facendolo di-scendere al piano di sotto, vestito di tutto punto a sfidare (e vincere) le ire di Mira, la minore delle due figlie, gli oggetti “preziosi” nei quali si è compiaciuto di generare sé per sé, come in una Genesi alla rovescia. Il vecchio signore di casa Belmonte ritorna ogni notte nella cucina a trovare Mira; la cucina,  luogo infero proprio di colei che, come l’angelo più bello del creato, all’inizio di un tempo scandito dall’amore, gli si è ribellata precipitando nel «sotto». La cucina è il  luogo metastorico in cui il tempo rallenta il suo corso e la memoria si attualizza sprigionando fantasmi che urlano.

Mira, a causa della sua ribellione ha inoltre subito la dannazione della condanna a una vita priva della «luce» dell’amore paterno, fuori da una Sicilia edenica, nello spazio profano e dissacratorio della prassi contemporanea.

Intorno al ramo solido della memoria si avvita il tralcio di una storia familiare segnata dal rispetto delle apparenze, tipiche di un Sud che dell’apparenza ha fatto la propria carta d’identità nell’era della rimozione del mito e dell’ancestrale. Ma nessuna facile sociologia, nessuna  posticcia «questione»,  gravano  su questo dramma in cui l’arte è, sopra ogni cosa, mìmesis, e l’intreccio è capace di vivificare «fatti» nei quali, per lunghi tratti, è il mito che dice e che parla, conferendo a dialoghi e personaggi quella potente ed incontrovertibile esemplarità che è tipica della tragedia antica.  La memoria era dai greci ritenuta un facoltà sacra dell’uomo, suggello della sua deità, per mezzo di essa gli uomini si emancipavano dal tempo, sedevano alla mensa eterna degli dei.

La cucina di casa Belmonte diventa pertanto skenè di questo dramma contemporaneo ed eterno insieme. In essa due figlie, Otilia e Mira, una moglie estinta, e zia Lalla, degna sorella di Umberto, questo novello Crono di Sicilia, signore del tempo, divoratore delle proprie creature. Poi c’è  Santo, il figlio dell’incesto: sottratto dalla madre alla voluttà di oblio del padre, deità volatile, deità sottratta; appare a tratti sulla scena mitica di cucina Belmonte, gli autori ci avvertono che è dotato di uno strumento magico, il computer. «Connettendosi», Santo mette le ali di Ermes e vola tra i profani per restare vivo, rientrare nella storia dei mortali.

La verità «mitica» di Otilia la conosceremo soltanto alla  fine, una verità insostenibile che getta sgomento anche al di là dello spazio scenico, al di là della “riserva” in cui stanno confinati i «fatti». Quando conosceremo quel che avevamo presentito, quando sapremo che anche Otilia ha subito le attenzioni del padre e le ha subite fino all’estremo, generandogli Santo, un altro “esiliato” «sputatole in grembo», come in cosmogonia, lo sgomento erompe fuori dalla scena mitica effondendosi per la platea con la stessa micidiale solerzia di un gas nervino che ammorba ogni cosa.

Qui, nel dominio della memoria, fuori dall’incubo della storia,  non ci sono fatti e nemmeno antefatti, i fatti tornano a vivere come eterni e diventano esemplari, il teatro torna ad essere il recinto sacro di Dioniso. Se Aristotele fosse tra noi direbbe che codesto dramma è in grado di provocare quei sentimenti sublimi di pietà e terrore che tanto giovavano  all’animo degli antichi per raggiungere la catarsi delle passioni. Ma io scrivo ad un computer, mi collego tutti i giorni ad Internet, ed era un bel po’ di tempo che non riuscivo a prender sonno la notte, e non c’entra l’ora legale! Gli antefatti si apprendono tra le righe di un serratissimo dialogo fra le sorelle ormai quarantenni, riunite nella casa paterna in occasione dell’agonia di Umberto: si tratta di un’agonia lenta, dalla durata imprecisata, per di più con clamorosi ritorni di coscienza da parte del morituro; un‘agonia veggente in cui il tempo scolora in eternità, attualizzandosi.    Mira, la minore è andata a vivere al “Continente” dopo la denuncia, ha aperto un agriturismo in Toscana;  la maggiore è rimasta in casa a far le veci della madre dapprima sfuggita alle grinfie del marito satanasso, poi rientrata e infine ben presto defunta. Animata da un fiero e irriverente odio nei confronti del padre, Mira è  inconsapevole del fatto che Otilia le era stata sorella anche nel seguire il suo stesso destino, e maggiore a lei; docile più’ di lei, più di lei degna di essere iniziata al culto ancestrale dell’incesto. Le mostra cosi’ eguale disprezzo, la considera alleata del padre:  mossa da un’ira convulsiva, erompe come un’arpia nella cucina Belmonte,  rimprovera ad Otilia la sommissione alla volontà proterva del padre, quella sua fedeltà di cui non coglie il segno mitico ed autenticamente sacro. Mira è un abitante dello spazio profano, dell’al di qua, del mondo della caduta ontologicamente scisso in un bene e in un male; ella non intende, e mai potrebbe intendere, il fideismo religioso della sorella, l’unica in grado di ascendere alla stanza di sopra, autentica vestale dell’ordine sacro dei legami fondati sulla memoria. Solo Otilia può fornire un exitium al dramma cosmico, solo lei può e deve infliggere la morte al padre.

«La stanza di sopra» rappresenta a mio avviso un precisa operazione culturale da parte dei suoi giovani autori. E’ infatti indicativo come essi vadano a ritrovare nell’Isola il centro di una rappresentazione avente ad oggetto il dramma puro ed eterno dell’essere nel tempo. Nel tema dell’incesto gli autori  rinvengono la strada maestra per  il recupero di un teatro puro, essenziale e, per questo, totale. I dialoghi sono secchi, la tecnica sapientissima, la rappresentazione impeccabile: essa rivela,  svela, squarcia sentimenti  puri, terribili, atavici; le maschere godono della totalità e pienezza del simbolo: la vita, con le sue maglie spesse di sentimenti, è un velame che le due donne gettano ben presto ai loro piedi lasciando scoperta l’anima che pulsa al suo fondo.

Il padre è un povero vecchio che muore ma anche una divinità titanica che divora i figli; le figlie sono le vittime sacrificali e, insieme, le vestali del rito; il nipote, una divinità mondana, uno Zeus siculo sottratto dalla madre alle fauci del Titano, che si trascina goffo nel tempo aiutandosi con una tastiera. Dintorno sta un coro di anime silenziose, inerti abitatori della Terra: un deserto che risuona di cosmici riverberi.

L’arte sembra, per un momento, capace di tornar a produrre miti; ma si tratta di un momento che dura da sempre.

Vince Ferrara

Sumptuous, la mostra, i mostri

Posted in recensioni mostre arte contemporanea with tags , , , , , , , , , on febbraio 7, 2010 by vince1971

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–       «Wunderkammer» (…)

–                    «wunder….che»?

–                   «Wunderkammer», Camera delle meraviglie!

Usiamo questa mirabolante parola tedesca per introdurre il lettore a Sumptuous, sontuoso ricevimento allestito in tre stanze del complesso ex-Macelli Prato da Lorenzo Fusi e Lucia Minummo del Museo delle Papesse di Siena con tanti artisti contemporanei invitati, e tutti, proprio tutti, hanno portato qualcosa di meraviglioso (…)

Dal 14 dicembre 2002 al 29 gennaio 2003

Dal lunedì al venerdì dalle 16.00 alle 24.00

Sabato e domenica dalle 15 alle 19.00

Chiuso 25,26 e 31 dicembre, 1 e 6 gennaio

Segue testo

Wunderkammer è una mirabolante parola tedesca che usiamo  come chiave di accesso a Sumptuous, mostra materializzatasi a Prato nel Natale 2002 in tre stanze del complesso ex-Macelli. Tre stanze, niente meno che le vecchie celle frigorifere arredate sontuosamente con svariate opere di molti artisti contemporanei.

La prima stanza, in verità, è poco più che uno stanzino destinato in origine a mansioni burocratiche tipo accertamenti e registrazione dei capi destinati al macello, è stata arredata con tende in broccato in uno stile molto simile a quello di quinte da teatro barocco; qui Leonardo Filastò ha istallato il suo PEEP SHOW nuda pecora, tre video in sequenza verticale che riproducono in presa diretta scene di tosatura, parto e primo piano sul volto di un montone: dall’occhio alle corna a spirale (x1), si osserva la progressione visiva del motivo della spirale che, nel terzo video, diventa espressamente simbolo dinamico capace di indurci ad una specie di ipnosi. Uno stadio alterato della coscienza è del resto l’ideale condizione per inoltrarsi nella sala successiva dove ha luogo il corpo centrale della mostra: l’area espositiva è qui decisamente più estesa, l’odore del sangue rappreso negli interstizi del pavimento ed il freddo trapelante dai medesimi operano la seconda e la terza alterazione della percezione fino a costituire una sorta di istallazione nell’istallazione. Entriamo così nel secondo “tempo” di Sumptuous, vi accediamo  per una porta stretta –  i quadrupedi vi passavano tra frustate e imprecazioni: è qui il fulcro della mostra. Interamente addobbata di broccati barocchi, consta al suo centro di unico lungo tavolo in marmo originale atto allo  squartamento delle bestie accoppate, il tavolaccio è stato  tramutato in un suntuoso tavolo da cerimonia con schienali patronali e tappeti preziosi creati da Massimo Orsi, i tappeti sono pieni di crittografie, alcune nemmeno tanto occulte, sui quali  è possibile leggere i titoli degli stessi: prayer carpet, mukunni carpet, ok un cazzo carpet! (x2) Che fa l’artista? Riproduce stralci di monologo interiore? Mah, sarà pure, ad ogni modo lasciamo quesiti di tal fatta ai professori! Sumptuos è troppo di più per potersi concedere l’indugio su uno solo dei suoi componenti, sebbene i tappeti di Orsi, sparsi ovunque nelle tre sale, rivestano un ruolo centrale nel gioco della fruizione col loro automatico richiamo alla sfera del mercuriale e del magico sembrano voler fornire un percorso linguistico trasversale all’intera mostra, come quei fregi sui portali delle chiese romaniche che erano insieme commento architettonico e rimando poetico. Qui, sulla soglia della terza stanza dalla quale provengono i bagliori di un filmato in proiezione, la mente vaga sotto il pungolo della brama mettendo le ali ai piedi che corrono di ratti a vedere cosa succede, ci riserviamo di passare dopo per la sala da cui muoviamo visto che saremo obbligati a passarci per andare via dalla mostra: la terza “stazione” di Sumptuous ha luogo infatti nella sala terminale dell’edificio con un solo accesso laterale e stretto.  L’impianto scenico barocco si protende qui in una solo versante della sala sul quale Dario Ghibaudo ha allestito – ma sembra più fedele dire accatastato – il suo «museo di storia innaturale», il resto della sala si offre spoglio con un pannello di tela al centro della parete antistante: qui si proietta un video del ’97 di Liza May Post, dal titolo Visitors . «E’ questa la wunderkammer», mi spiega Lorenzo Fusi, curatore della mostra, che incontro ai Macelli la sera dell’esibizione della geniale performer canadese Shirley Anne Hofmann (x3) e che mi accompagna nel mio secondo «giro» in Sumptuous, il primo avveniva la sera stessa dell’inaugurazione col disturbo di troppa gente impegnata a dirsi «Grazie a Dio…Buon Natale» ed,  effettivamente, la mostra è stata concepita come una sorta di ricevimento, una cerimonia dove si mangia gratis, si fa musica e si vedono cose strane e belle: facile, in queste condizioni darsi allo svago. E invece i miei sensi sono poco disposti al relax conviviale che si può qui godere. Il video di Liza May Post viene proiettato sulla parete spoglia della terza sala – quella che ho definito “stazione”, e non a caso – ha l’audio differenziato rispetto alle sequenze delle azioni che non rappresentano niente di codificato, gli attori riproducono movimenti «puri», del tutto  dissociati dal contesto neutro nel quale si relaizzano: unico rimando con l’esterno viene istaurato fra i vestimenti degli attori e i carpets di Massimo Orsi che anche qui impreziosiscono la wunderkammer, in prevalenza allestita da Dario Ghibaudo. Opere che ci prendiamo la libertà di definire, in via provvisoria,  «visionarie» roproducono sagome in resina, lattice ed altri materiali sintetici di pulci, zecche, e blatte giganti dentro a teche di laboratorio: la blatta – per di più impreziosita da griffe e agghindamenti preziosi – si protende obliqua sulla parte superiore della parete con le sue antenne scientificamente estese che fanno esclamare “kafka” e agli intellettuali di turno e alle signorine dabbene, mentre imbarazzanti analogie fisionomiche genera negli stessi il ritratto di uno scimpanzé su tela incorniciata a vivo da Leonardo Filastò per cui il primate elegantemente posa accomodato sopra un prezioso luigi dodici o tredici. Sotto a questo strano quadro Ghibaudo ci fornisce ancora un esemplare di fauna post atomica con una strana specie di bradipo dal pelo fucsia e morto stecchito dentro una teca di vetro conservato non si sa bene se a fini scientifici o religiosi. Al  museo di storia innaturale appartengono inoltre la singolare  collezione di calchi nasali appartenenti a Piero Gilardi, Enrico Baj, Andreas Serrano, Arnaldo Pomodoro, Enrica Borghi. Quest’ultima è presente con una sua opera contributo al Museo di Ghibaudo con una Venere di Milo completamente ricoperta di orsetti anti-tarme e coronata di solette traspiranti.  Ma il pezzo forte del museo di storia innaturale può, a mio avviso, essere ritenuta la sezione geografica con “pezzi” dello stesso Ghibaudo: due mappamondi raffiguranti uno le terre emerse, l’ altro le acque – titolo Orbis Terrarum, omnes terrae, omnes aquae– nei quali sia le acque che i rilievi  dei mappamondi sono prodotti con centinaia di cristi in plastica fluorescente della dimensione di poco più di un pollice e mutilati delle braccia; il «materiale» è stato poi disposto in differenti maniere, piana quando si è trattato di “fare” il mare, superbamente accatastato per le terre emerse. La medesima tecnica viene da Ghibaudo utilizzata per rappresentare l’ America del Nord e l’Oceania in due apposite bacheche, singolare il titolo dato alle raffigurazioni: Caritas Christi urget nos? frase di San Paolo cui l’artista ha aggiunto un significativo punto interrogativo.

Il pensiero mio, ormai definitivamente destabilizzato, corre ratto alle vicende della contemporaneità: come non pensare all’imminente – ma già in atto – conflitto? E non sai bene se costernarti e persino provare contrizione per la veneranda icona del Crocefisso trattata come materiale di assemblaggio, oppure se imprecare all’indirizzo dello Stesso individuandovi l’origine prima di tutti i mali della Civiltà sorta in suo nome;  poi lo salvi escogitando scappatoie mentali del genere: “i suoi insegnamenti sono stati travisati dall’uomo” (la donna nel contempo era stata messa definitivamente a tacere) – e inoltre –  “ il suo pensiero strumentalizzato dalle potenze bimillenarie che hanno afflitto prima l’Occidente poi il Pianeta intero in nome suo”. Allora la rabbia cede il passo al terrore, il freddo si fa più intenso, l’odore del sangue più penetrante insieme all’ansia; mi allontano  rapido dalla camera delle meraviglie guardandomi le spalle con la coda dell’occhio, se qualcuno dovesse mai seguirmi: cerco rifugio nella sala delle cerimonie che prima avevo velocemente lasciato, qui ci trovi altri esseri umani intenti ad osservare le opere in  mostra ma presto ti imbatti negli occhi di M. che ti scrutano con odio, – M. è il custode della mostra, probabile altra «istallazione vivente» come il freddo e il puzzo? <possibile..possibile>. Ti ritrovi davanti  i  Cento re che ridono di Diego Perrone, stampe lambda di dimensioni varie incorniciate, confermano le dinamiche mentali precedenti: eccoli tutti insieme, i Luigi, gli Enrichi, i Riccardi che ti osservano coi ghigni maligni – storpiati “ad arte” su stampe di quadri manieristi e fiamminghi –  sembrano dirti che la storia non cambia poiché il Potere piace a te e tu piaci al Potere, come le sgualdrine di De Sade che ci stavano perché, in fondo, ci volevano stare; allora corri via, non sai più se scappi via o se rincorri nuove visioni, nuovi corti circuiti della mente, ritorni all’ingresso della mostra e osservi il video-stemma Mirage di Minette Vari (X4) in cui gli elementi araldici liquidi si tramutano in  procaci corpi di donna nuda e sgusciante come quelli di streghe che evocano ai Macelli di Prato la presenza incontestabile di Woland immortalato in una vecchia istantanea dentro cornice dorata di Cindy Sherman(X5). Più giù, nel video-camino di Letizia Renzini crepitano fiamme digitali con le voci registrate di un litigio fra due amanti mentre due beffarde corna di cervo, al di sopra dell’istallazione, evocano gli amplessi trascorsi, rimane una rabbiosa voce di donna, delusa d’amore, che investe quella pavida dell’amante disamorato in un geniale radiodramma che possiamo comodamente godere in cuffia seduti su una rossa e – manco a dirlo – suntuosa panca in pelle rivestita.

Tanto vale lasciarsi andare del tutto al flusso delle sensazioni prodotte – è proprio il caso si dirlo- da queste istallazioni parlanti; staccare un poco, o del tutto, la mente minata dallo sconforto ed incline ormai a considerazioni di ogni natura: forse la salvezza sta nello smettere di lavorare, di produrre le merci e i servizi che avvantaggiano ormai in maniera sempre più iniqua i padroni del moribondo Occidente e del Mondo intero: «we are an happy family, we dont work», è il sedizioso stralcio sonoro che riporto da The Tower di  Quirin Rackè & Melena Muskens,  DVD video nel quale in duplice schermata è riprodotta la saga di una simpatica famigliola inglese incallita sostenitrice della nulla-facenza. Ecco, ho trovato una funzione positiva all’arte contemporanea – mi viene da credere, mentre mi avvio rinfrancato a chiudere il mio giro per Sumptuos – e cioè quella di veicolare messaggi di rottura utilizzando medium efficaci di facile accesso, come dire che l’imminente Guerra (con tutto il resto che l’origina)  potrebbero essere arrestata, o quanto meno demistificata. Giungo così al centro della sala che è anche il centro ideale di questo reale vortice di oggetti ad alto potere significativo: sul tavolo da macellaio giacciono i  Cuori Nudi di Vittorio Corsini, (X5) otto elementi vitrei a forma di cuore umano con fibre ottiche che ne attraversano le cavità, esprimono una «doppia centralità esangue sul tavolo da macellaio», parole di Lorenzo, il curatore; i cuori nudi percorsi dalla «pura» luminosità della fotoelettrica rappresentano, a mio avviso,  il corpo mistico della mostra nella quale il motivo cristico, indissolubilmente connesso a quello satanico, sua antitesi, appare decantato della carica ideologica che ha di fatto nutrito il Potere nella storia e fatto trionfare la sua antitesi: forse se ne dovrebbe inviare una copia a mister Bush e un’altra -perché no -, anche a sua santità Karol (…).  Al di sopra dell’istallazione di Corsini pende il lampadario creato dai Vedovamazzei con un teschio all’ interno di una boccia illuminata, quel teschio non manchevole di lanugine è il teschio di  Ho-Chi-Min, il mitico capo dei Viet-Kong che la leggenda narra essere apparso in forma di teschio parlante ai Suoi la notte del 4 luglio 1971 per esortarli all’ultimo vittorioso attacco contro gli invasori a stelle e strisce. E’ proprio una bella visione, cosa di più rinfrancante per congedarci da questo viaggio surreale in Sumptuous ?

Dal presente referto dell’evento sono stati volutamente tralasciati molti  nomi di artisti e di opere;  è  possibile rinvenirli nell’intelligente “scheda didattica” per il pubblico infantile fornita all’ingresso della mostra come guida pieghevole (che è anche un gioco da ritaglio ed un racconto) prodotto da Eva D. Toklas; però, a ben vedere, i bambini non sanno che farsene, almeno sul momento: meglio scorazzare per le sale dell’ammazzatoio pratese trasformato a Natale in in una singolare esposizione universale e – proprio alla maniera loro- imbambolarsi ad ammirare le opere di alcuni geniali interpreti dell’estetica contemporanea. Si tratta della solita cara vecchia poliforme dionisiaca arte, fenomenizzatasi in una più che consigliabile mostra fruibile fino al 29 gennaio stando però ben attenti che, mentre la nostra attenzione è presa da cento belle cose, le mani del custode malevolo, ispirato da  Lucifero, non vi rinchiudano dentro le celle frigorifere: tra il freddo e tutto il resto qui descritto non sarebbe proprio un happy Cristhmas Time.

Vince Lunatico

Happy, shalala, it’s nise to be happy!

Posted in recensioni mostre arte contemporanea with tags , , , , on febbraio 7, 2010 by vince1971

Si chiama Donatella Di Cicco, ha trent’anni con una codina, vive a Milano ma il suo bel nome partenopeo rimbalza da un ganglio all’altro della Rete quale firma di molto originali opere. Happy Effort, Senigallia Beach e Man in Desk sono i titoli di tre serie fotografiche esposte di questi tempi a Prato in Toscana. La galleria è un ambiente unico ricavato dentro un androne di chiaro impianto medievale: la parete frontale, intonacata di fresco, si offre spoglia con una logora scrivania sulla quale si accatastano, in ordine sparso, cornici contenenti foto di dirigenti italiani al lavoro, sono tutti uomini e di varie età, l’ambiente è quello stantio dell’ufficio, sono i Man in desk. Sulle pareti laterali, dal piano alquanto irregolare per la vetustà, privi di cornice e montate su alluminio, si stagliano esemplari fotografici ad alta definizione tecnologica:  Happy Effort è  la sequenza più breve, tutte donne comuni il cui «felice impiego» è quello di lasciarsi cogliere dall’obbiettivo, graziose nei loro abiti borghesi, quelli della festa; le mogli sono le uniche eroine di questa kermesse italiana postmoderna. Di rimpetto ad happy Effort, prolungata in una sala attigua, le quindici fotografie della sequenza Senigallia Beach, con soggetti vari ritratti nell’Estate 2001 nella celebre Riviera: sono i figli e le figlie, il culturista, le fidanzate italiane, sembrano tutti pezzi di un campionario unico, un modulo iconografico, cloni di marchio registrato chissà dove, di certo negli States.

L’impianto della mostra offre al visitatore, nell’insieme, un singolare straniamento, ma a me sembra più efficace chiamarlo “sballo” per meglio aderire alla materia che Donatella ama trattare nelle sue originali fotografie. Va in onda la commedia postmoderna, e fermiamoci qui che lontani sono i tempi in cui immagini come queste sarebbe certamente andate in pasto a sociologi di ogni risma. Lasciamo l’incombenza felice a chi vedrà la mostra e a chi si ritroverà le foto della Di Cicco, magari in siti dei non addetti ai lavori ma, (perché no, siti per scambisti o per voyeur reiconfessi)     secondo una delle più eccellenti interpreti della pensiero pop. Io sono stato impaziente ho chiesto a Letizia, una mia amica di Prato, di venire a vedere la mostra e di poterla intervistare, lei è venuta. Fruite pure.

Annalisa Furnari Gioco-Giogo Rassegna Slang 1

Posted in recensioni mostre arte contemporanea with tags , , , on febbraio 7, 2010 by vince1971

Annalisa Furnari.

Gioco-Giogo.

Rassegna Slang 1

Morirai tutta. Morto peso. Di te non resterà pensiero..negativa eternità. Tu non hai armonie

Con rose d’arte musicale.

Opaca in abissale nulla

Altalenerai volatile tra sbiaditi morti.

Saffo, fr.55 P.


Tra i movimenti più graditi e spontanei per i bambini, il dondolarsi sull’altalena, oltre che rafforzare la muscolatura del corpo,provoca divertimento e sensazioni forti di decollo. E’ preferibile sempre istallare altalene a più posti per favorire il gioco tra amici.

Da una reclame per Altalene

Parlare di arte è un’incombenza che spetta a quanti? Pochi? molti? Certo, l’arte è per tutti, deve esserlo sempre, però difficilmente ne parleremo a tavola o a telefono, con la ragazza: chi fa vera arte parla sempre e solo attraverso le opere, non v’è dubbio. Ma a chi parla? Al popolo? Chi è il popolo? Chi sono gli altri? Chi siamo noi? Ogni vera opera d’arte dovrebbe indurre quesiti simili a quelli surriportati.

Questo scritto, ispirato all’ultima istallazione di Annalista Furnari, non pretende certo di  essere un’inchiesta anche se, fin da principio e senza una precisa intenzione, si agghinda di  interrogativi appuntiti come chiodi.

Un tempo c’erano gli elzeviri e la prosa d’arte, i critici disquisivano d’arte con fiorito linguaggio per i quei lettori, borghesi, colti e meno colti, che erano in grado di intenderli.  Chi scriveva sapeva a chi  rivolgersi. Oggi, le “terze pagine”, sono i gabinetti degli scrittori, nel senso nobile ed in quell’altro. Leggere la terza pagina di un quotidiano è come sbirciare dal buco della serratura, puoi vederci anche cose interessanti. Inevitabile voyerismo, del resto, dato che i veri artisti, si sa, parlano sempre di sé e sono sempre veri, soprattutto quando (si) espongono. Non esiste più un lettore «ideale», non esiste più un fruitore d’arte «ideale», siamo tutti lettori ideali, specie se abbiamo danaro da immolare ai sogni altrui, noi, non siamo capaci: produciamo opere d’arte concettuali ad ogni guisa, specie il mattino, soprattutto al risveglio, solo che non diamo peso ai nostri sogni; siamo abituati a capitalizzare i nostri pensieri: la voglia di “non perdere tempo” ci fa desistere, ed, in fondo, ci consola; più avanti, nel corso del giorno, ci disturberà persino sentire parlare di sogni altrui, sebbene moriremo dalla voglia di raccontare i nostri ad una sconosciuta. L’artista è invece colui o colei che crede ai sogni, ci crede e poi ne parla agli sconosciuti. Annalisa, in gioco-giogo, ha superato la barriera del pudore, è stata forte, ha avuto pazienza, ed ha creato, per noi, i Suoi giochi. “Swings” ha chiamato la sua istallazione.

Lei stessa ce ne fornisce le istruzioni in tre pagine di una lucidità forse eccessiva per un’opera dichiaratamente ludico-onirica e molto, molto cruda.

In verità, Swings è un sogno ad occhi aperti.

Nove altalene bianche sospese ad altezza variabile da un soffitto alto sei metri in alcuni punti, in altri meno di quattro; ganci metallici sostengono due corde verniciate bianche impreziosite da cristalli e rose bianche di stucco, le due corde trattengono un’unica seduta fatta di legno trapassato da chiodi neri ricurvi, o avvolto di filo spinato, alcune, o da chiodi dritti che si intersecano, altre. N(u)ove altalene sospese nelle tre stanze della galleria che ospita l’installazione: le pareti sono state verniciate anch’esse di bianco, la quarta parete è costituita da una vetrata dalla e nella quale si può sbirciare anche di sera, quando la galleria è chiusa. A intervalli regolari vengono emessi fumi sintetici che invadono le stanze soffondendo gli oggetti.

Nove altalene irte di chiodi dentro un ambiente ovattato e – a tratti-  evanescente, sono una rappresentazione che attualizza l’illogico ed  il contraddittorio, manufatti per di più non produttivi, in senso economico: un’altalena inutilizzabile, sebbene dotata di pregevoli qualità estetiche, risalta immediatamente per l’impossibilità di essere utilizzata.

Quel che non è logico e non produttivo – danno, quest’ultimo, ancor più imperdonabile per l’ideologia corrente – deve essere rimosso dall’immaginario e non và rappresentato. Se, se ne parla, allora sarà un’incombenza da “specialisti”. I preti (i pope, i mullah) sono gli specialisti di Miracoli, gli artisti sono gli specialisti dei mostri? I mostri appartengono alla dimensione del sogno, oppure del gioco, se ne fanno giocattoli molto venduti;  gli adulti si divertono in altro modo: hanno le manìe che talvolta trasformano in mode.

“Swings” è un progetto pop. Vedrei bene le altalene della Furnari a New York, sospese a lunghi tralicci nell’area che era delle Twin Towers, con le debite proporzioni. L’epoca che viviamo sta rapidamente ricreando i suoi simboli; internet è il sommo medium dei cari vecchi simboli espressi in nuove forme. Realtà parallele, ubiquità economiche e giuridiche, compresenze virtuali determinano inflazioni di senso da cui sorgono nuove necessità, nuovi  linguaggi.

Gioco-gioco è un’istallazione che punta direttamente all’immaginario. Una nebbia densa  invade la coscienza, scende in profondità, compare il simbolo, letteralmente, tutto insieme in uno.

Le altalene irte di chiodi o bardate di filo spinato sono un vero e proprio  cavallo di troia nel cuore del Mediterraneo.  Dai bassi fondi dell’Occidente gli americani porteranno le altalene a New York, la gran capitale d’Occidente.  Ne sono intimamente certo, ci saranno sfilate e concerti: il gioco negato avrà una sua versione seriale che verrà estesa al mondo intero: vedo giovinette afgane svelate sopra altalene irte di chiodi sotto sguardi analogici per mutanti individualità digitali.

Gioco-giogo è un’opera invasiva che pretende, e ottiene, ascolto.

Il gioco-divieto che avvincerà le masse XXI’s Century.

C’è da auspicarlo?

Un Fortino per Broadbeck

Posted in recensioni mostre arte contemporanea with tags , , , on febbraio 7, 2010 by vince1971

Foundation what a passion, lo slogan è quasi scontato per l’avvicendarsi nel giro di due giorni di due eventi di primo livello per l’arte contemporanea a Catania.

Il 21 scorso, presso la Fondazione Puglisi-Cosentino si è inaugurata la mostra  “Costanti del classico nell’arte del XX e XXI secolo” con pezzi unici di maestri conclamati e inaugurazione a inviti, conferenza stampa inclusa.

Il 22 è stata poi la volta della Fondazione Brodbeck con le istallazioni di Michael Beutler presentate nello scenario unico di un ex fabbrica primo-novecentesca recuperata a spazio espositivo ma anche a residenze d’artista, foresteria e laboratorio progettuale. Niente conferenza stampa.

Mattino luminoso di quasi primavera a Catania domenica scorsa: “Giorno molto felice” e “coronazione di un sogno”, sono queste le frasi che Paolo Brodbeck ha usato per presentare il suo programma di rilancio in chiave contemporanea dell’arte a Catania proiettandola così d’un tratto – dopo decenni di underground – al crocevia delle rotte della sperimentazione internazionale.

Si chiama “Fortino 1” il progetto espositivo inaugurato dall’artista tedesco Michael Beutler e curato da Helmut Friedel, Giovanni Iovine e Salvatore Lacagnina. Un vero e proprio comitato scientifico per un progetto di ampio respiro: i tre curatori scelgono ciascuno quattro artisti emergenti sulla scena della sperimentazione artistica internazionale che lavoreranno a turno  alla fondazione fino al 2013. La vecchia fabbrica di liquirizia torna così a pulsare di vita con un susseguirsi di residenze, project work, mostre.

Motivo guida di Fortino 1 è l’interazione estetica con l’ambiente circostante, il quartiere in cui la fondazione ha scelto di essere inserita: San Cristoforo, il “barrio” sorto su una lingua di lava dell’ eruzione del 1669 che seppellì i bastioni del limitrofo Castello Ursino ridisegnando la costa catanese. Alla fine dell’Ottocento il quartiere divenne sede di molti stabilimenti industriali e luogo di una specifica urbanizzazione che conserva intatti i moduli dell’epoca, un patrimonio inestimabile di  “archeologia industriale”, vero e proprio polo turistico culturale alternativo al barocco.

Scelto dal conterraneo Friedel, il 33enne Beutler –  alla sua prima esperienza italiana – ha avuto per tre settimane a disposizione circa seimila metri quadri di padiglioni e palazzine quasi del tutto scevri da interventi di restauro. Lo spazio espositivo è da sempre un ingrediente essenziale delle istallazioni di Beutler: costruite sul luogo, esse si rapportano all’ambiente circostante con una “presenza” dimensionale capace di  creare un “doppio indirizzo” nella fruizione dello spazio.

Vediamo così un grande telaio rotante rivestito di fogli di carta da imballaggio modulare  perfettamente il locale che lo accoglie:  l’istallazione obbliga il visitatore a un carosello intorno e dentro la struttura composta di più “anime” dove  la luce ed i colori che essa accende seguono traiettorie sempre mutevoli.

Inoltrandosi per il grande cortile dell’ex fabbrica ci si addentra in ampi padiglioni separati da alte mura, dentro al padiglione più internato si innalza Yellow Escape, la sola opera “completa” dotata di un titolo: la struttura scalare intelaiata con polistirolo e ferro rivestiti di tasselli gialli addenta lo spazio circostante secondo scarti e punti di fuga ben calibrati. Yellow Escare “non è una scala ma una visione della scala: rappresenta il motivo dell’elevarsi”, spiega il candido Friedel, curatore tedesco fino conoscitore di cose italiane.

Telai proto industriali costruiti – dallo stesso Beutler  – verticalizzano tronchi cartacei variamente dipinti che rimodulano il motivo dell’elevarsi ispirandosi forse al motivo fallico di un rito autoctono fortemente radicato nel quartiere, un quartiere degradato di una città politicamente degenere. Investire sulla ricerca e sulla sperimentazione è una chiara inversione di tendenza in una città dominata ancora dalla stessa classe politica che ha generato ogni sorta di mostruosità estetica –  in chiave soprattutto architettonica –  variamente visibili qua e là nella città dei molti ghetti. Ghetti fisici e mentali. Puntare sull’esperienza contemporanea significa provare a restituite al presente una città e un’isola confinate in quella dimensione mitica che è garanzia di immobilismo ideologico. Coinvolgere, includere far interagire gli artisti e gli addetti ai lavori con la gente è una scelta culturale di sicuro successo. Chi resterà a guardare?

ARTE – Catania – dal 22 febbraio al 22 marzo 2009 – FONDAZIONE BRODBECK ARTE CONTEMPORANEA – Fortino #1 – Michael Beutler
FONDAZIONE BRODBECK ARTE CONTEMPORANEA
Via Gramignani 93 (95121)
+39 0957233111, +39 0957233111 (fax)
info@fondazionebrodbeck.it
http://www.fondazionebrodbeck.it
vernissage: 22 febbraio 2009.
curatori: Helmut Friedel, Giovanni Iovane, Salvatore Lacagnina
autori: Michael Beutler espone alla Fondazione Brodbeck fino al 19 Aprile.

DA QUI. Uno di nove alla Galleria Collica

Posted in recensioni mostre arte contemporanea with tags , , , , , , , , , on febbraio 7, 2010 by vince1971

Aria nuova sul fronte più meridionale del settore arte contemporanea in Italia, Catania. Una città che forse sotto il profilo degli eventi e degli intenti professati dagli addetti ai lavori,  almeno quelli più raffinati ed evoluti,  cerca di fornire qualcosa di più che semplici etichette all’immaginario corrente. La settimana scorsa abbiamo fornito la cronaca dell’inaugurazione della Fondazione Brodbeck, questa settimana parliamo di  qualcuno e di un luogo  che giocano un ruolo considerevole nel concept del progetto da poco inaugurato alla  factory catanese: si tratta di  Gianluca Collica, direttore artistico della fondazione,  e della sua galleria sita in via Musumeci a Catania.

DA QUI# 01.09  è la mostra in corso  dal 21 febbraio scorso. Una mostra cominciata in sordina sulla scia dell’a grande inaugurazione, il giorno stesso, quasi di slancio. Si tratta del primo evento promosso dalla galleria nel 2009,  tempo di partenze, tempo di anteprime. Progetti che arrivano, progetti che vanno: tempi, modi, spazi che si intersecano dando un’origine ad un nuovo percorso espositivo pensato da Alessandra Ferlito,  giovane curatrice della mostra. Da qui  principia un ciclo di personali  esposizioni  di tutti gli artisti qui presenti per un ciclo preventivato di due anni.

Dall’incontro di tanti progetti non poteva che nascerne uno collettivo, sebbene effimero, intenzionalmente effimero per sua intima necessità. Vi si rappresentano – soprattutto vi si fotografano – visioni, panoramiche, mappe: una sorta di cantiere a cielo aperto questa collettiva che vede nomi di primo piano della sperimentazione impegnati a rappresentarsi nel vivo di quella progettualità che è ormai l’essenza dell’arte stessa.

Da qui ai prossimi 9 incontri del ciclo, la precarietà estrema dell’ esserci – dell’essere nella forma – verrà qui rappresentata per sé stessa, nel suo freddo, blando concepirsi. Musa del momento non poteva essere che “lei”,  madamoiselle la fotografa che, qui,  con stampe off set di varie metratura e supporti  domina incontrastata: alcune sono anteprime,  come il riquadro impresso da Paolo Parisi in Commonplace (Museum) –  in programma alla Fondazione Brodbeck per l’anno in corso,  altre report, come l’istallazione di pannelli operata da Federico Baronello, le sue Barre d’Argento impresse su carta metallizzata con foto d’archivio, scrupolosamente annotate nel numero di serie, documentano lo sviluppo industriale e tecnologico in Sicilia.

Tutti siciliani chiaramente i partecipanti. Una curiosa istallazione di Filippo Leopardi introduce allo spazio fisico espositivo volgendo le spalle di una cassa di imballaggio per opere d’arte  al visitatore che accede alla mostra. La cassa da imballaggio – che cela sul  retro una “gradita” sorpresa – testimonia la precarietà artefatta del work in progress come tema, come tempo e modo di questa e delle nove mostre a venire nell’intero ciclo espositivo preventivato.

La plasticità è garantita o meglio auspicabile come il concepimento di un desiderio: chi entra mosso dall’esigenza di vedere realizzata – e di consumare – una forma, o anche solo un evento, viene via in fretta.

Non c’è un contenuto effettivo e nemmeno un quid in questo atto inaugurale, l’anti-evento concepito lungo le nude e crude dimensioni dello spazio e del tempo, si dona nel suo stesso farsi con tutta la leggerezza della sua precarietà estrema. Una formalità, o una questione di qualità cantavamo anni fa.

Sul luogo comune come concetto-visione insiste Maria Domenica Rapicavoli con due stampe al plexiglass  del celebre paese di Corleone, nume cinematografico, eterna cine-visione – più o meno autorizzata – del fenomeno mafia in Sicilia. La panoramica del centro abitato abbinata a un primo piano di faldoni tratti dal Tribunale di Palermo sono le coordinate minime concettuali di  un progetto sorto per  raccontare il  paesaggio attraverso  video interviste (reperibili altrove) in cui gli intervistati non vengono inquadrati per ragioni tutt’altro che giudiziarie ma solo ed esclusivamente, per così dire, formali.

Coi film fotografici di Cane Capovolto si chiude il cerchio di visioni del cominciamento: i film “fotografati” nel montaggio continuo degli Stereo Unfixed: un nuovo momento della ricerca che impegna da anni  il  collettivo di videomaker catanesi ( e non solo) in una decostruzione “crudele” dell’eterno presente quale fattore a-temporale dello Spettacolo contemporaneo. “Noi fotografiamo per dimenticare” recita uno slogan inserito nei loro “droni” , montaggi che occupa i 15 minuti totali del video presentato.

Al di qua del mezzo, “dietro” la visione si spinge infine il lavoro filologico di  ricostruzione aereo visiva operato da Carmelo Nicosia e dal gruppo FASE su lettere di corrispondenza di alcuni piloti americani in missioni di guerra sui cieli del Vietnam nel ciclo “Una grande nube oscurò il cielo”.

Apocalypse. Now?